Fra sogno e realtà
a cura del Prof. Carlo Mari
Allora, ci siamo riusciti, dopo una complessa serie di tentativi organizzativi. Sabato 21 ottobre siamo in visita al Laboratorio di scenografia, sartoria e falegnameria del Teatro dell’Opera di Roma. Il tempo non ci assiste; dopo qualche mese di caldo vietnamita, piove leggermente e tira un gran vento freddino. Ma tant’è, la nostra sete di immergerci nel clima laboratoriale musical-operistico è più forte del maltempo.
Diciamo subito che l’edificio è ben noto a Roma: l’ex pastificio Pantanella, via dei Cerchi, fra Santa Maria in Cosmedin e Bocca della Verità da una parte e Circo Massimo dall’altra. E ho detto tutto! Luoghi iconici di Roma, per intendersi. L’edificio dall’esterno non denota affatto un buono stato di salute… ma all’interno … invece pure. Siamo di fronte ad un edificio vittima di molteplici incendi. Uno grave verso la fine dell’Ottocento devasta due dei quattro piani. 2023 – no, dico 2023 – i segni dell’incendio ci sono ancora. Comunque immergiamoci.
La visita è di quelle fascinose. Il luogo. La destinazione d’uso. I nomi di riferimento, fra artisti canori, registi, architetti: un fuoco pirotecnico di grandi figure dell’arte nostrana, e non solo. L’atmosfera mixata fra creatività, bellezza, artigianato vintage e tecniche di costruzione e produzione ipermoderne. E così seguiamo e ascoltiamo la guida Chiara, non senza l’ausilio di un ascensore, perché i piani sono quattro, quanto mai opportuno. E visto il finale travolgente della visita, definirlo opportuno è un eufemismo. Si diceva dei nomi affascinanti; basterebbe quello di uno degli architetti, Clemente Busiri Vici, che nel 1930 rimodella l’edificio ottocentesco con grandi saloni adatti all’uso laboratoriale su larga scala che ne farà e ne fa il Teatro dell’Opera di Roma. Costruzione, creativa e tecnica, di scenografie; strutture e macchine in legno per gli spettacoli; creazione e conservazione di costumi spettacolosi: vere e proprie opere d’arte, indossate nelle loro esibizioni canore da cantanti del livello di Mario Del Monaco, Maria Callas, Renata Tebaldi, Luciano Pavarotti. Per non parlare di registi e scenografi iconici come Franco Zeffirelli, Luchino Visconti, Pierluigi Pizzi. Dante Ferretti. E hanno fornito la loro arte, pittorica e di progettazione scenografica, anche artisti del calibro di Duilio Cambellotti, Giorgio De Chirico, Giacomo Manzù, Pablo Picasso, Renato Guttuso, Corrado Cagli, Marc Chagall, Mino Maccari, Giulio Turcato. Tanto per intendersi, quando ti aggiri, con fatica per gli spazi ristretti, nei corridoi laboratoriali ti imbatti in presenze di questo livello. Immortali. Retorica? Sì retorica, e non me ne importa nulla. Dice Chiara: questo abito è stato indossato dalla Callas in Otello, ed è stato disegnato e colorato da Guttuso… ah, va beh… una cosetta insomma !
La fascinazione è tanta; ma anche il dispiacere. Eh sì, perché un patrimonio monumentale del genere – si parla di molte e molte decine di migliaia di costumi – meriterebbe una conservazione più adeguata, per spazi, qualità dei locali e degli stessi carrelli appendiabito e delle custodie di plastica. Insomma i disordinati e approssimativi armadi di casa mia manifestano una cura di mie vecchie giacche ormai in disuso decisamente più conservativa di questa. E le mie giacche non le ha neppure disegnate De Chirico, ma il sarto in fondo a destra sulla mia strada!! Il personale che gestisce il tutto fa quello che può, ma stiamo parlando di un patrimonio artistico/culturale che meriterebbe una conservazione museale.
Sì, lo so, le obiezioni sono due. Questa conservazione ammassata, disordinata alla vivadio ha un suo fascino vintage, ti proietta nel 1950 e dietro la nostra guida Chiara sei sicuro che comparirà prima o poi Maria Callas rediviva sottobraccio a Picasso. Ci sto, l’atmosfera conta. Ma non puoi illuderti ingenuamente, lo stato di conservazione non è una voluta ricerca di atmosfera: non ci offrono nemmeno il “brandy che crea un’atmosfera” e ti prepara all’incontro con Turandot e Otello, Picasso e Nureyev – che poi li vedessimo davvero ci prenderebbe anche un colpo, per ovvi motivi. A proposito di sconcerto… quello cos’è? Uno scatolone di cartone, chiuso con un po’ di scotch ed una scritta che dice “lago dei cigni – passamanerie”. Non ci credo, il mio sublime, poetico lago dei cigni, così? Caikovskji in una vecchia scatola di cartone, che manco al deposito oggetti smarriti della stazione Termini!!
Ma no, lo stato di conservazione, diciamo eufemisticamente non museale, altro che atmosfera, è una vil questione di soldi, che non ci sono. Per carità, uno si rende certamente conto di questo, ma anche dello scarso spirito imprenditoriale che aleggia sul nostro paese come il fantasma di Amleto. Risorse che scarseggiano, ok, ma anche lo spirito imprenditoriale scarseggia: un patrimonio del genere postula investimento, ma poi chiama anche un rientro notevole, in termini di visitatori, di iniziative, di legittimo sfruttamento commerciale del patrimonio stesso. Si pensi alla Mostra recente di costumi proprio del Teatro dell’Opera a Palazzo Braschi: una iniziativa di richiamo, generatrice di risorse. Ma tant’è, queste riflessioni negative sono inevitabile conseguenza della visita in spazi strettissimi che non valorizzano adeguatamente quello che stai cercando di vedere, esaminare e gustare. E sono costumi stupendi, memorie storiche, creatività al top. E non solo di pittori e cantanti, ma anche di lavoratori ad alto tasso di professionalità. A cominciare dal personale di sartoria, non meno creativo e artistico di Guttuso. E insostituibile, quando opera direttamente durante uno spettacolo, nella vestizione e rivestizione dei cantanti.
Insomma un mondo: tanto dell’arte con la sua creatività quanto del lavoro con la sua professionalità
Un po’ diverso il discorso per il settore laboratoriale della scenografia e falegnameria, dove la funzione laboratoriale ha sì un profilo anche di conservazione, ma soprattutto di produzione nel presente. Come le scenografie per il debutto stagionale del Teatro Costanzi a novembre 2023. Legnami, chiodi, colori, colle, grappette, chiodini, tessuti, cartoni, polistirolo: un insieme di materiali che la artistica progettazione di scenografi e registi e la sapiente lavorazione dei tecnici (per intendersi, gran parte dei quali diplomati in scuole d’arte di livello scolastico e di livello postscolastico) trasforma, anche davanti ai nostri occhi, nella immaginifica e visionaria ambientazione sul palco del Teatro Costanzi, in cui moduleranno le loro note sublimi Norma e Turandot, Violetta e Tosca, Alfredo e Manrico, Lohengrin e Cavaradossi. E magari volteggeranno sinuosamente Giselle e Coppelia, la Bayadère e Drosselmeyer. Insomma una impresa collettiva, in cui è inestricabile il rapporto e la integrazione fra registi e cantanti, musicisti ed elettricisti, sarte e falegnami, pittori artisti e pittori artigiani, esperti professionisti maturi e giovani apprendisti appassionati e proiettati al futuro.
Come la ragazza che davanti a noi, nell’arco di oltre 20 minuti, con un pennello di un metro dipinge su un telo da scenografia un lungo segno marrone. E tu non capisci se sta fingendo, per noi pubblico in visita, oppure alle 9,00 di mattina con le sue cuffie sulle orecchie non ha ancora voglia di far nulla. Magari le offriresti volentieri un caffè per stimolarla. Poi finisce la visita del salone …. e ti accorgi che quel lungo segno marrone sulla tela in 20 minuti ha preso vita e ti incanta, sembra parlarti di precarietà di un edificio e, chissà, di precarietà della vita. E allora vorresti scusarti con quella ragazza… pardon, con quella artista, ma lei nemmeno ti vede, sta con le sue cuffie nel suo mondo: del Mefistofele le cui scene stanno preparando.
Insomma la visita è tutto un entrare e un uscire: dentro un sogno, fuori dal sogno, dentro il reale, fuori dal reale. Sarà anche per questo che il laboratorio lo mantengono in quel modo, senza musealità. Tanto il fascino te lo danno Wagner ed Elsa, Puccini e Liù, il Circo Massimo lì di fronte e la ragazza coi capelli biondi, le cuffie, un mega pennello, un barattolo di colore ed uno di colla. Che crea una lunga linea marrone… e nemmeno si accorge di noi.
Sogno e realtà, bellezza e vissuto. E il finale della visita non può essere eluso.
Uno di noi, una nostra amica carissima che con la associazione va in giro per l’Italia e per il mondo, scivola alla fine dell’ultimo gradino sulla porta d’uscita dell’edificio. Uno spavento, un dolore, un braccio che avrà bisogno di cure e probabilmente di ingessatura. Ma tanto lei verrà con noi in altre visite, in altre avventure, pure col gesso. Perché il sogno è più forte, pure di una caduta su un gradino.
Intanto una ragazza addetta ai servizi del Laboratorio, efficientissima, trova il ghiaccio, chiama l’ambulanza, organizza il trasporto con un infermiere che in verità mi sembra più Mario Cavaradossi che un infermiere; e si prende cura della nostra amica e chissà che sull’ambulanza non le canti “recondita armonia, di bellezze diverse”. E pure la ragazza superefficiente improvvisamente… assume il profilo soave di Liù e intona come un usignolo “Signore ascolta! Ah signore ascolta. Liù non regge più, si spezza il cor!”….. Ma forse sto sognando.
Devo proprio ri-uscire dal sogno e ri-entrare nella realtà, che mi chiama al parcheggio, alla mia auto, al tagliando delle strisce blu che sta scadendo. Altro che Liù, se non corro rischio di trovare una vigilessa.
Che bella visita però!!