“Fra un giallo ed una emozione. Visitando Van Gogh”
(di Carlo Mari)
Per visitare una mostra dedicata al malinconico Vincent Van Gogh periodo migliore non c’è di una giornata autunnale. E infatti con Tempo di Eventi ci andiamo ormai in autunno pieno, il 19 di ottobre.
32 gradi all’ombra, turisti quasi in mutande e romani vestiti a strati, o, come sul dirsi, a cipolla. E comunque, si suda. E già questo irrita il buon Van Gogh, che si aspetta visitatori in golfetto o giacchetta di lana e col volto asciutto, libero semmai di essere inumidito solo da qualche lacrima di emozione e commozione per i quadri che vedono ed il narrato che ascoltano, dalla guida o dai video. Ma tant’è, la mostra è bella! La presentazione dei curatori impeccabile ed una volta tanto, anche di facile lettura su pareti, targhette informative e pannelli: scritte a caratteri grossi e nitidi. Che non si capisce perché alle mostre di pittura non si regolino sempre così, e prediligano invece scritte a caratteri appena accennati, invisibili.
Ma Palazzo Bonaparte è Palazzo Bonaparte…. la classe non è acqua.
Entriamo, seguendo la nostra guida – ed amica – Silvia, che non vedevamo da prima dell’estate, e che sembra persino emozionata di rivederci.
Primo piano, e infiliamo una prima sala in cui Van Gogh… non c’è. Non vorremmo fare il bis della mostra dedicata l’anno scorso a Klimt, in cui Klimt era… assente.
Ma Silvia ci rassicura, i curatori qui sono bravi e solo questa sala vede dipinti non del protagonista della mostra. E poi, non ce ne vorrà Van Gogh, ma ci sono due quadretti di Renoir e di Picasso da brividi. E scusate se ho detto poco: Renoir e Picasso, cioè stiamo su livelli alquanto altini. La mostra peraltro nasce dal prestito di quadri quasi tutti provenienti dal Museo privato Kroller-Muller nel piccolo villaggio di Otterio, meritoriamente custode di un patrimonio di tante opere del pittore olandese.
Ed eccoci poi ad infilare una serie di sale e di quadri del nostro Vincent; tutti disegni, carboncini, studi, rigorosamente in bianco e nero o al massimo in marroncino. Ma non era il pittore dei colori? Forse mi confondo con qualcun altro. Ma Silvia ci leva ogni dubbio. E’ proprio Van Gogh, e a parte ogni ironia, così si fa: si parte – ed in ordine seriamente cronologico – dai primi studi, dai primi approcci dell’artista, dai primi disegni, dalle scelte tematiche che poi lo accompagneranno sempre: volti, per lo più femminili, e sempre sofferenti; lavoratori e lavoratrici, dei campi e non; nature morte; interni di famiglia con un desco pieno di patate, simbolo di un lavoro fatto nei campi, di una produzione realizzata, di un pasto frugale, buono ma frugale. E poi qualche accenno di paesaggi. Il tutto condito dalla narrazione di una “vita a pezzi” fin dalla nascita, con la percezione di essere il sostituto di un fratellino nato morto: una riserva insomma. Non era così, non buttiamo subito la croce addosso ai genitori. Ma certo quello che conta è la percezione di sè che ognuno ha, e Vincent questo percepisce: essere una riserva. E poi la fatica del pavesiano mestiere di vivere, di un ruolo e di uno spazio da conquistarsi nella vita. E la sofferenza di tutti e in tutti: la povertà, il lavoro misero ma dignitoso, l’incomunicabilità fra esseri umani. E l’amore, sempre cercato e mai trovato. E allora il lasciarsi vivere, il ritrovarsi solo fra soli, emarginato fra emarginati. E chi meglio di una prostituta, per relazionarsi. Non dico per amare, parola troppo grossa negata di fatto alle prostitute, così come a Van Gogh. E l’amicizia, ricercata e trovata solo nelle proprie costruzioni mentali, nelle proprie proiezioni sull’altro, che amico sembra e non lo è. Almeno nel momento in cui un amico ti serve davvero. La nostra guida – amica, lei sì – Silvia ci dice tutto, nel mentre percorriamo le sale del Van Gogh senza colori; ma tanto importante per capire Van Gogh. Così come fondamentale per la comprensione dell’artista e della sua vicenda umana è la lettura di brani, proiettati in nicchie suggestive, di tante sue lettere all’amato fratello-padre-manager Theo: un vero zibaldone, riflessioni che vanno nel profondo, ma anche di insospettabile qualità letteraria. Utili a comprendere l’uomo e il pittore, ma anche belle in sé, per la qualità della scrittura e la emozionalità delle immagini, non meno intense e visionarie nelle parole di quanto non lo siano quelle delle pennellate e dei virgolettati colorici dei suoi quadri.
E poi, ecco, nuove sale e un primo accenno di luce; cominciano i quadri multicolor. E la luce ti si accende dentro. Per risplendere piena quando poi sali al piano di sopra, e il colorismo di Van Gogh emerge forte, con quadri bellissimi, nei quali riconosci però gli stessi soggetti, le stesse tensioni umane e intellettuali, lo stesso accorato disperante pessimismo dei disegni in bianco e nero delle prime sale. E i curatori, dunque, e Silvia, avevano ragione: per capire il Van Gogh più famoso ed amato devi partire dal Van Gogh che studia, ricerca e costruisce preliminarmente il proprio percorso artistico/comunicativo. La mostra è bella. I soggetti ritorneranno, compulsivamente, seriali: i volti, i contadini, il seminatore, gli interni di famiglia, le patate, i girasoli, i covoni, i prati, i campi di grano, gli uccelli in volo, gli alberi, le nuvole…. seriali e sempre più visionari. Ma poi arriverà anche il cielo stellato, sopra di noi. Dentro di noi. I cieli stellati non sono purtroppo fra i quadri esposti nella mostra, ma tanto ce li abbiamo dentro, e non ce li toglie nessuno, e li proiettiamo noi, da soli, con il nostro immaginario, sui dipinti che invece vediamo sulle pareti, lì, di fronte a noi. Con tanto giallo dominante. Il colore di Van Gogh. Qualcuno insinua, colore scientifica conseguenza delle allucinazioni da assenzio. Vogliamo sempre rovinare tutto. L’assenzio avrà pure influito sul suo vissuto drammatico, autodistruttivo, forse bipolare; ma a noi Van Gogh ha generosamente lasciato i suoi gialli meravigliosi, nei fiori, nei campi, nelle visioni di un paesaggio tanto irreale quanto carico di slancio vitale. E di questo lo ringraziamo. E questo ce lo godiamo.
E così andiamo verso la fine della mostra, vivendo tutto il paradosso di Van Gogh. Che poi forse paradosso non è, ma il focus ispirativo dei grandi artisti. Più ci inoltriamo nel finale tragico del suo vissuto; più andiamo verso la follia, conclamata, il ricovero nel manicomio, la rottura dell’amicizia – unidirezionale – con Gauguin, l’allontanamento lacerante dall’amato fratello Theo che si sposa e mette al mondo un figlio; più andiamo verso il suicidio quasi distopico nel suo dipanarsi come uno spettacolo teatrale, che al modo di un’antica tragedia greca dura nei giorni, fra il colpo di pistola ed il trapasso in una grigia – e non gialla – stanza d’albergo; beh, più ci inoltriamo con il racconto emozionale di Silvia in tutto questo, più ci troviamo di fronte a quadri dai colori che ti aggrediscono, ti entrano dentro la pelle e ti trasmettono immagini visionarie cariche di adrenalina. Più il 37ennne Van Gogh va verso la propria morte programmata (da lui? dalla vita? da qualcun altro?) e più si carica di slancio e di passione, nella consapevolezza che saranno quei quadri a farlo restare con l’umanità, dentro l’umanità… per sempre. Così è anche per quel quadro crudo del vecchio senza più speranze, seduto su una sedia con il capo tra le mani, che campeggia in chiusura della mostra e si pone – sì – come metafora del vissuto tragico dell’uomo, ma anche del trionfo del pittore, universale e vivo…. con noi. Hic et nunc. Proprio insieme alle sue mitiche sedie impagliate.
E questo turbinio esistenziale, di una sofferenza che si fa bellezza, e quindi ribellione, lo cogli in pieno grazie alla trovata scenografica dei curatori della mostra, che ti fanno entrare in una stanza onirica, ipertecnologica, in cui finisci immerso e stordito in un cielo stellato, tanto tecnologico quanto emozionale: ti senti non sotto, ma dentro il cielo stellato, al punto da procedere a passi incerti, insicuri, per timore che l’illusione si possa trasformare in un vetro reale contro cui puoi sbattere. Il che romperebbe l’incantesimo e creerebbe il comico involontario laddove di comico non c’è proprio nulla. C’è il drammatico di una vita in cui, come Van Gogh, ti senti protagonista di te stesso.
La mostra è finita. E Van Gogh ti è rimasto dentro, più che mai. Non possiamo dire “Van Gogh, uno di noi”. Sarebbe ridicolo. Perché è diverso, in qualche modo è solo se stesso, è solo Van Gogh. Ma il rapporto dialettico con la vita, col mondo, con gli altri, con il lavoro, con l’amore, con l’amicizia, con la malattia: quello è di noi tutti. E la bellezza ci salverà, come in fondo ha salvato Van Gogh, per quel poco che possa aver goduto. Ma per il tanto che ha lasciato dietro di sé.
Usciamo, per tornarcene nelle nostre case, nella nostra “stanza da letto”, altro suo capolavoro non presente alla mostra, ma presente dentro di noi, oltre che nei video proiettati in sala. La casa, che in tanti suoi disegni Vincent ha tracciato. E per lui casa è pascolianamente nido, rifugio, che puoi scovare in un campo di grano, dentro un covone, sotto un albero, persino in un burrone (quadro meraviglioso esposto in mostra), dentro uno sguardo. Ovunque. Purché sia un luogo raccolto, che ti protegga, ti dia un po’ di sicurezza. Quella protezione che Van Gogh ha sempre cercato, persino in un casa di cura per disturbi mentali: e non ha trovato… mai . C’è un quadro, nella mostra, con il giardino del manicomio di Saint-Rèmy. Un quadro bellissimo e dolcissimo. Che ritrae una confort zone…. in un manicomio. Un quadro che è tutto un programma di vita, peraltro con il suo verde intenso e delicato, altro colore super vangoghiano.
Un gruppetto di noi se ne torna a casa condividendo un medesimo taxi, trovato fra tanti taxi a piazza Venezia. A suo modo, un rifugio !! Lo guida una donna. Credo siano secoli che non mi capita un tassista… donna! E va beh, capita. Mi siedo davanti. E un po’ di traverso, senza farmene accorgere, mi metto a guardarla. E’ bellissima, con tutta la mascherina. Di profilo mi sembra proprio la donna del ritratto visto nell’ultima sala della mostra. Ritratto di giovane donna, col volto di un insolito, tenue, irreale colore verdino. E verdine le gocce che fanno da sfondo al volto e che scendono anche lungo la veste. Un quadro che non conoscevo. Che Silvia valorizza giustamente, vedendoci anche anticipazioni geniali di una pittura futura, postvangoghiana. E anche io ci rivedo qualcosa del Picasso della prima sala. Non so. A quanto pare sto fuori di testa, vedo Van Gogh nel volto della tassista.
Meglio finire qui !!