Insolite emozioni fiorentine

A cura del Prof. Carlo Mari

PRELUDIO

Quando Tempo di Eventi punta sulla creatività!

Visite culturali e artistiche, conferenze, gite, viaggi: per lo più, giustamente, puntano sull’importanza, sul rilievo, sulla storicità, sulla chiara fama, sul prestigio attuale di ciò che si va a vedere e ad ascoltare: e gustare. C’è una mostra su Van Gogh, Munch, i futuristi, gli impressionisti, Caravaggio, di cui tutti parlano? Si organizza e si realizza la visita. Non ce ne perdiamo una. Ferrara è città di storia, cultura e arte infinita? Si organizza e si realizza una tre giorni ferrarese. E così a Milano, Parma, Torino, Padova…per dirne solo alcune. Ninfa è un giardino di ineffabile bellezza? Si organizza e si realizza una gita. La Domus Aurea è storia e fascino? Si organizza e si realizza una visita… e così al Foro romano, al Quirinale, al Vittoriano, a Palazzo Braschi, a Palazzo Bonaparte o alla “celestiale“ Galleria Borghese: tutto sacrosanto, e tutto meraviglioso, per chi come noi, ama l’arte, la cultura, la storia… e la bellezza.  Giustamente stiamo sul pezzo: della storia della cultura e anche delle dinamiche della vita culturale dei nostri giorni, che ci accompagnano in un percorso che ovviamente ha tutta la complessità del vissuto. Che sia quello privato o quello pubblico. D’altronde la complessità, checché se ne dica, è un valore. E comunque è la vita, è la realtà. Ci siamo immersi.

Ma altrettanto giustamente, ogni tanto, anzi spesso! con Tempo di Eventi ci muoviamo sull’onda della creatività. Degli artisti? No, la nostra, come associazione.  E ci andiamo a gustare cose “fuori repertorio”, o almeno non consuete. Angoli particolarissimi della nostra Roma; mostre di nicchia; gite in luoghi fuori dai circuiti del turismo culturale standard.  E appunto in questa ottica di visite “particolari”, “creative”, “insolite”, il 16 maggio scorso eccoci impegnati in una gita dalla mattina alla sera a… Firenze! Già le sento le risate diffuse, i sorrisetti ironici: visita insolita a Firenze? Cioè in quella che, non ci fosse Roma, sarebbe la città d’arte per eccellenza in Italia? In Italia? Diciamo pure nel mondo!  E infatti non a caso durante il nostro viaggetto fiorentino incontriamo circa… un milione di turisti!! Non erano un milione? D’accordo, comunque per le strade fiorentine si transitava con difficoltà e solo sgomitando, fra americani, cinesi, giapponesi, coreani, tedeschi, spagnoli. Giornata nel segno della globalizzazione.

Ma mentre i turisti si aggiravano alla ricerca di Santa Maria del Fiore, Galleria degli Uffizi, Santa Croce, Ponte Vecchio, la magnifica pattuglia dei diciotto “tidieini” (nome d’arte per indicare i soci di Tempo di Eventi) ignorava del tutto la splendida città del giglio e si inabissava in altro. Intendiamoci, non per snobismo o ignoranza, ma proprio perché Firenze per noi non ha segreti: già la conosciamo benissimo e la amiamo. Chi sta scrivendo, addirittura, ci ha vissuto tre anni. Certo, direte voi, in altra epoca della sua vita, da ragazzetto: ma a qualunque età tu viva a Firenze – e per tre anni – non te la dimentichi più. Un amico dei miei genitori, appassionato della Divina Commedia – che conosceva a memoria – ricordo che mi portava men che adolescente in visita agli Uffizi e mentre eravamo lì, di fronte a dipinti meravigliosi, recitava terzine dantesche una dietro l’altra. E chi se lo dimentica! Era fiorentinità pura! Insomma Firenze era già dentro di noi, anche prima del 16 maggio; e infatti con Tempo di Eventi siamo andati a visitare due cose che fisicamente si trovano a Firenze, ma potrebbero benissimo stare altrove. Vivono di luce propria, a prescindere dalla città location. Stiamo parlando della Fondazione Zeffirelli/Centro internazionale per le Arti dello Spettacolo, con relativa mostra permanente; e dell’Opificio delle pietre dure/Istituto di conservazione e restauro di opere d’arte.  Insomma due fiori all’occhiello della cultura artistica italiana, ma molto particolari: per storia, attività, profilo ed obiettivi.

ANDANTE CANTABILE CON FUOCO

E così, con annessa alzataccia alle sei di mattina, eccoci pronti alle 8.00 alla Stazione Termini dove ci attende il nostro amico “Italo” (sempre più competitivo con Trenitalia!!). Prima classe business (ci mancherebbe Tempo di Eventi in seconda classe!!) e alle 9.30, puntualissimi, siamo in quel di Santa Maria Novella. Dove ci attendono alcuni minivan NCC, che ci condurranno in men che non si dica al centralissimo e imponente Palazzo della Fondazione Zeffirelli, una onlus privata nata da pochi anni dall’impegno – e dal patrimonio – del grande regista. In men che non si dica per modo di dire, perché i nostri minivan devono farsi largo a fatica nelle strette affascinanti strade del centro storico fiorentino, invase, già a prima mattina, dai turisti. Ma tant’è, il viaggetto cittadino è comunque intrigante, facendoci passare – tanto per gradire – davanti allo splendido duomo e alla iconica Santa Croce. Il viaggetto è intrigante soprattutto per il gruppetto di noi che sale sul primo dei minivan pronti con tanto di cartello “Tempo di Eventi”. Eh, sì, perché il conducente che ci accoglie in effetti è… una conducente, una gentile signora… anzi è un “paggetto” uscito direttamente dal Romeo e Giulietta zeffirelliano. E’ deliziosamente dotata di biondissimi capelli a caschetto e di una divisa nera che sembra proprio un costume di scena d’epoca. Insomma entriamo nel clima mitico del maestro fiorentino già prima di entrare nel palazzo! E’ vero, Franco Zeffirelli era di Firenze, ed era fiorentino proprio nel DNA. Tanto per dire, aveva un carattere facile, tranquillo e non polemico; per capirsi, tipo quello di Dante Alighieri ! E però Dante avrà pure avuto un caratteraccio, ma ha creato la dolcezza assoluta di “Tanto gentile e tanto onesta pare”; e così Zeffirelli ha creato la dolcezza assoluta di un film come “Romeo e Giulietta”, icona delle storie d’amore senza tempo. Splendido nel 1968 quando è stato girato, splendido nel nostro 2025, e splendido sarà nel 2125 quando lo gusteranno anche i nostri lontani discendenti. Sì perché Leonard Whiting e Olivia Hussey, che si incontrano nel salone da ballo o sul balcone, tubando come piccioni in fiore, non appartengono a nessuna epoca, ma al “sempre” dell’arte. E della bellezza.

Certo non tutti gli aspetti organizzativi di Tempo di Eventi sono perfetti, e giustamente dobbiamo rimarcare anche i deficit. Ad esempio, che la nostra visita a questa fascinosa Fondazione/Mostra/Museo venga guidata da un tal “Alessandro” anziché personalmente da Giulietta… o almeno almeno dalla bisbetica Caterina o dalla passionale rusticana Santuzza o dalla malinconica Liù pucciniana, è grave carenza organizzativa. Presenteremo le nostre rimostranze a chi di dovere.  Ma intanto dobbiamo accontentarci di Alessandro che, poverino, è anche bravo ed empatico e fa di tutto per farci ammirare le bellezze del luogo. Manoscritti, anche privatissimi, di Zeffirelli, disegni di scenografie e costumi, fotografie di scene di film, opere teatrali di prosa e opere liriche; locali immersivi in cui girano con effetti speciali scene di opere realizzate dal Maestro, nel mentre risuonano brani emozionali di Mascagni, Puccini, Verdi, Rossini. E la ricostruzione in bozzetti di scene teatrali e filmiche, costumi originali suggestivi utilizzati in opere indimenticabili e perfettamente conservati. E poi la biblioteca personale di Zeffirelli, ricchissima di oltre 10.000 volumi di tutti i tipi e con i contenuti artistico/culturali più intensi e vari.

Nel contempo il nostro Alessandro racconta con dovizia di informazioni, sovente anche originali e non divulgate dalle cronache correnti, il vissuto personale ed artistico di Zeffirelli. Dal complesso profilo familiare giovanile, alla scuola registica sul campo praticata con Luchino Visconti, alle prime opere, alla meticolosità maniacale del lavoro preparatorio dell’artista, all’impatto forte delle scelte registiche rispetto alla tradizione teatrale nel mettere in scena autori immensi come Shakespeare. In tal senso giusto il soffermarsi sulla prima messa in scena zeffirelliana di Romeo e Giulietta all’Old Vic di Londra nel 1960, con una scelta radicalmente innovativa soprattutto nella scenografia (iperessenziale) e nella centrale fisicità dei protagonisti. Finalmente non più Romeo e Giulietta magari grandi attori ma ultra trentenni o quarantenni, ma Romeo e Giulietta giovanissimi negli interpreti (John Stride e Judy Dench) tanto quanto i personaggi rappresentati. E poi i successi nelle rappresentazioni operistiche, straordinarie per scenografie, coreografie, costumi e impasto canoro di grandi interpreti. E “La lupa” di una Anna Magnani dalla fisicità prorompente di donna matura ipererotica; e la fascinazione reciproca con Maria Callas, protagonista di tanta produzione dell’ultimo Zeffirelli.

Alessandro fa di tutto per non farci patire la mancanza di una guida “mitica”; anche se mostra i suoi limiti quando, parlando di Olivia Hussey interprete di Giulietta nell’indimenticabile film del 1968, definisce il suo volto “magnifico”!  Magnifico? Tutto qui? Come fosse una bella partita calcistica di Coppa dei Campioni o un bel documentario di Alberto Angela? Gli facciamo presente che almeno almeno occorre far ricorso all’aggettivo “sublime”; per il momento, in attesa che Immanuel Kant voglia aggiornare la sua estetica nella “Critica del giudizio”, individuando un nuovo aggettivo adeguato a quelle bellezze assolute, che superano i confini del reale, ti entrano dentro e assurgono al mondo della “iconicità per sempre”. Come certe opere d’arte, come certi paesaggi oppure, appunto, come il volto di Olivia Hussey/Giulietta!  Tant’è che lo stesso Zeffirelli anni dopo, girando il film/sceneggiato TV Gesù di Nazareth, per intrepretare la Madonna sceglie, manco a dirlo, Olivia Hussey: più matura negli anni, ma appunto sempre e definitivamente “sublime”.

Purtroppo abbiamo i tempi contingentati, e dobbiamo concludere questa visita tanto insolita quanto favolosa: con la emozionalità a mille. Nessuno vorrebbe andarsene. Ma dobbiamo. Portandoci negli occhi e nella mente tanta bellezza, tanta arte, tanta passione. E tanta emozione. E non è neanche che tutto questa debba implicare per forza un particolare amore per l’arte zeffirelliana, che ricordiamo, è stata anche divisiva. Non a tutti piaceva il suo stile, a volte volutamente “barocco” o ipercoloristico; non a tutti le sue messe in scena di opere e testi teatrali sono piaciute. Perché giustamente i gusti sono vari, i giudizi si legano a tanti aspetti del nostro vedere, del nostro sentire, del nostro gustare. E ci mancherebbe. Ma una cosa è ormai acquisita: che Zeffirelli sia stato artista vero, e poliedrico; che sia stato grande artista, capace di poesia assoluta; e sia stato a suo modo un grande pittore, che ha trasformato in pittura la scenografia, la coreografia, la costumistica; e il modo di porgere, di muoversi, di guardare degli attori. E che sia stato artista di assoluta professionalità: nulla lasciato al caso, all’improvvisazione o alla approssimazione. E questo gli è riconosciuto universalmente. Come spesso capita con i grandi artisti: più passa il tempo dalla scomparsa, più li si riconosce come tali, e più li si ama. E li si rimpiange.

LENTO MODERATO

Dopo la pausa per rifocillarsi e prender fiato dalle emozioni vissute in mattinata, eccoci di nuovo proiettati in un’altra visita “insolita”: l’Opificio delle pietre dure, che è anche centro internazionale di restauro e centro di formazione per giovani che guardino al mondo, professionale e anch’esso a suo modo creativo, del restauro e della conservazione del patrimonio artistico. Questa volta ci troviamo di fronte ad una istituzione pubblica, dipendente dal Ministero della Cultura, che affonda le sue origini addirittura nella Firenze medicea della fine Cinquecento. Un grosso complesso edilizio, all’interno della megastruttura della Fortezza da Basso, storica area cittadina di Firenze, una volta poderoso bastione dalle funzioni militari, poi area convegnistica e che oggi vediamo rivolta ad un futuro prestigioso, con grandi lavori edilizi per la realizzazione di un mega centro congressi da 2500 posti. Non c’entra direttamente con l’Opificio, ma il complesso cittadino è lo stesso ed appare decisamente orientato a divenire un polo culturale di grandi prospettive. E l’Opificio acquista così ulteriore profilo e slancio.  Siamo di fronte ad un Istituto che è ad un tempo sede di restauro di opere d’arte, di formazione di personale, di tutela del patrimonio artistico, ma anche di promozione delle arti visive nelle varie forme e manifestazioni: dalla pittura alla scultura, dalla tessitura alla ceramica, alla lavorazione lignea, a quella documentaria o artigianale cartacea o in materiali plastici.

Qui la dimensione, il clima che si respira è del tutto diverso da quello della Fondazione Zeffirelli: sia dal punto di vista delle professionalità in campo, sia da quello della fascinazione artistica. Da questo secondo punto di vista il rapporto con le opere d’arte più che legato alla dimensione attrattiva ed emozionale, è legato ad una dimensione di cura: una sorta di clima “ospedaliero”, in senso alto ovviamente, cioè l’intervento su opere che si sono “ammalate”, con il tempo o con l’incuria o per incidente, e che quindi nel vederle producono non la fascinazione emozionale della bellezza nella sua pienezza, ma l’emozione della bellezza “caduta” e da “risanare”. Per usare due immagini foscoliane riferite proprio al mito della bellezza: la caducità della bellezza e l’apprensione dell’intervento di cura. Ma c’è anche l’entusiasmo dell’intervento di cura riuscito, grazie al lavoro di professionalità diverse: dall’arte del ritocco a quella della ricucitura, dall’esame chimico alla indagine storico/critica, dall’analisi ambientale a quella del rapporto economico costi/benefici. Davvero professionalità molteplici, che concorrono a capire cosa si ha davanti, come epoca, autore, destinazione d’uso; capire se e cosa fare – e se fare – per recuperare un bene deteriorato; e infine operare, con tecniche pazienti e sopraffine ma anche con la implicazione di una sensibilità artistica, per riportare ad uno stato primigenio, o quanto meno vicino, un’opera d’arte in crisi.

Un processo che ci è stato raccontato e spiegato dalle varie guide che si sono susseguite; e che abbiamo in qualche misura visto anche all’opera. Ad esempio, nel lavoro di cesello di una restauratrice su un dipinto proveniente dal famoso ed evocativo museo milanese Poldi Pezzoli: una immagine di Madonna, mista di pittura, tessuti, pietre preziose. Un percorso che dura molti mesi, anzi sovente anni. Diverso si diceva il clima artistico in cui ci immergiamo: prorompente di fisicità, di colori, persino di sensualità quello della Fondazione Zeffirelli; pacato, lento, quasi crepuscolare quello dell’Istituto di restauro. Ma in comune, due cose fondamentali: la medesima passione per l’espressione artistica e la medesima sensibilità per la bellezza. Insomma la medesima dimensione di umanesimo pieno.

Con questo profilo culturale ed emotivo, attraversiamo il laboratorio di restauro di tessuti artistici; e il laboratorio di restauro di opere di scultura, con la lucidissima spiegazione di una professionista, una giovane restauratrice siciliana tanto eterea quanto grintosa, una sorta di lupetta verghiana, impegnata nel recupero di una scultura lignea raffigurante Maria Maddalena. Il recupero di un’opera che arriva da lontano e da precedenti restauri, e che presuppone competenze da chimico, da storico dell’arte, ma anche da… artista. L’emozione anche per noi è quella di vedere questa Maria Maddalena non nel suo fulgore come in altre opere d’arte che la raffigurano e che anche di recente abbiamo visto in viaggio ad Arezzo o in visite romane. Qui Maria Maddalena non risplende ai nostri occhi di viaggiatori innamorati dell’arte e della bellezza, ma si offre nella sua fragilità, di bellezza artistica caduca. E chissà che, forse, in tal senso, questa piccola sconosciuta scultura lignea malinconicamente “malata” non finisca col rappresentare il senso più profondo e autentico della figura storica della Maddalena meglio delle altre sculture o pitture con la Maddalena nel pieno fulgore della propria immagine!!!

E poi ecco altra scultura lignea in restauro, ma già affascinante pur nella propria integrità perduta: un Cristo crocifisso, ma al momento senza la sua croce infranta, e senza le sue braccia, da ricostruire. La restauratrice accarezza la scultura delicatamente, nell’incertezza su come risolvere la questione delle braccia. Ma tanto quella scultura ci parla ugualmente; tronco e volto infatti nella loro incompletezza non perdono, ma addirittura moltiplicano la propria forza espressiva. Il petto rigonfio  per la crocifissione trasmette una immagine ansimante; il volto dalla bocca socchiusa e dagli occhi dolcemente penetranti sembra davvero dirci con drammatica chiarezza: “guardate un po’ cosa mi è toccato fare per darvi una mano! Ma dopo duemila anni…. ancora, e più che mai, combinate pasticci (un eufemismo… giusto perché Cristo non usa il turpiloquio)”.

Lo salutiamo con qualche imbarazzo, perché in effetti ha proprio ragione; e continuiamo il nostro giro, da un piccolo, incantevole dipinto di Beato Angelico ad un immenso Cristo crocifisso, che arriva invece dalla vicina chiesa fiorentina di San Marco… e qui per chi sta scrivendo le emozioni si moltiplicano, anche sul versante puramente privato. In quei tre anni di vita a Firenze, di cui si è detto, la Chiesa di San Marco è stata sede del corso di preparazione alla prima comunione e poi della cerimonia stessa di prima comunione. Chissà, magari quel crocifisso allora era nel suo pieno fulgore e troneggiava sull’altare maggiore. Potrebbe essere…. Anzi probabile. Ed ora è lì, nelle mani amorevoli e professionali di due giovani restauratrici, che se ne prendono cura, studiandolo, analizzandolo, per poi intervenire e restituirlo alla passata bellezza e integrità.

Qui l’emozione si copre di un manto di malinconia: il tempo maligno è passato per quell’opera d’arte…. ma non solo per lei…… Per fortuna chi vi sta scrivendo viene distolto da questi velati pensieri esistenziali da una prodezza della operatrice nostra guida stabile per l’intera visita. Presa dal sacro fuoco della narrazione, nel mostrarci modellini vari lignei di crocifissi e di altre opere in restauro…. fa cadere il tutto, e qualcosa si frantuma e va in pezzi. Che la nostra amica con grande prontezza recupera e poggia su uno scaffale con aria vagamente furtiva, come a dire: va beh… si è rotto… ci vorrà un restauratore!! E meno male che non si è rotta un’opera d’arte, ma solo modellini di lavoro!! Quanto basta però, per il rumore sinistro, a far arrivare un’altra operatrice, che guarda la scena con aria fra commiserevole e irritata, come a dire fra sé e sé: questa collega è proprio una frana: quante ne combina. Comunque l’episodio fra il divertente ed il surreale serve se non altro a distogliere dalle filosofiche riflessioni sul tempo che passa. Kronos implacabile! Ma per fortuna che noi umani riusciamo a ricorrere anche a Kairos (come dicevano Proust, Joyce, Virginia Woolf o Svevo): il tempo interiore, il tempo opportuno, quello che ci godiamo e che non passa, perché ci resta dentro, è nostro: nel profondo.   Sì, come questa insolita primaverile visita a Firenze.

Purtroppo, come tutte le cose belle, la gita fiorentina finisce, troppo presto. Il gruppo questa volta a piedi, senza l’accompagnamento di nessun paggetto dai capelli biondi a caschetto, si riavvia verso Santa Maria Novella, dove ci attende Italo.

ADAGIO RIFLESSIVO

Percorrendo un po’ di strade a piedi non si può fare a meno di notare meglio l’universo umano dentro il quale ci stiamo muovendo. Che, come si diceva all’inizio, è fatto di tanti turisti, sì, ma anche di tanto altro. Ovviamente di fiorentini che si spostano per la città per lavoro: e questo non può che essere ok. Ma si vedono anche  tanti senza tetto, in condizioni davvero precarie: direi che Santa Maria Novella ne è letteralmente circondata. E anche tanti sbandati, in evidente stato di non sobrietà, per usare un eufemismo. E tante persone che portano i segni di una condizione precaria, sofferente. E tanto dispiegamento di polizia e di esercito (a Roma non se ne vede così tanto, nemmeno alla Stazione Termini); il che può anche dare un senso di sicurezza, ma induce anche una sensazione di precarietà, di fragilità. Evidentemente ce n’è bisogno. Insomma non sembra che le uniche ad aver bisogno di restauro siano le opere d’arte dentro l’Opificio delle pietre dure; ma anche la società, dolente, insicura.

E la riflessione viene spontanea, anzi forte e maligna. Ma in tutto questo come si colloca, che spazio ha, che funzione può avere quello che tanti amano, e noi “tidieini” amiamo: la bellezza, di cui ci siamo riempiti occhi ed anima anche nella nostra breve trasferta fiorentina?!  Ma la risposta può essere confortante, se ci si riflette con animo lucido e sereno, fuori da ogni stato emotivo. La bellezza c’è, nel mondo, e conta. Non è neanche, se è consentito il dirlo, come ci ha detto Dostoevskij, l’iperpessimista scrittore russo che nell’improvviso empito di un ottimismo per lui insolito scrive: “la bellezza salverà il mondo”.  Viene da dire che tante volte nella storia il mondo ci si mette così di impegno a non farsi salvare, che nulla può, nemmeno la bellezza… come pure questi ultimi 5 o 6 anni di storia e di cronaca ci indicano. Non è questione di salvataggi. E’ questione di umanità, di realistica umanità. Perché la bellezza una cosa riesce a farla di sicuro: fa entrare in connessione col mondo, con la realtà. La realtà esterna e quella propria, interiore. E questa è la conditio sine qua non per muovere il mondo in avanti, con ragionevoli speranze.

La connessione: è tutto lì. E non è un problema di connessione tecnologica (ci vuole anche quella, comunque, senza integralismi moralistici neoluddisti); quella decisiva è la connessione umana, con gli altri e con se stessi. Da lì parte tutto; e lì torna tutto. Connettersi, entrare in empatia con gli altri e con se stessi vuol dire comprensione, consapevolezza, apertura. Ed a questo, la bellezza, sì, che serve; anzi, è fondamentale.  Ci ha detto Goethe: “un’anima che vede la bellezza, non può non essere intrinsecamente bella”.  Ma saper vedere la bellezza non è una facoltà innata, un dono sovrumano; saper vedere la bellezza è esercizio, è abitudine a cercarla, e a guardarla. E quando riesci a vederla, diventi più bello, diventi umano. Allora sei più pronto ad aprirti; ad affrontare il male del mondo e nel mondo; ad affrontare il dolore, la sofferenza. E sei pronto a connetterti con te stesso. Il passo imprescindibile per aprirsi anche all’esterno.

Credo si possa trarre questa riflessione anche da una visita così insolita, ma così intensa, così autentica, come quella che abbiamo fatto a Firenze, in due ambienti tanto originali quanto capaci di penetrarti dentro. In un caso abbiamo visto esprimere bellezza, cantarla, offrirla e diffonderla; nell’altro caso abbiamo visto curare la bellezza, con professionalità e sensibilità, per restituirla di nuovo integra e luminosa  a se stessa, ed a tutti.

Sul treno di ritorno non a caso eravamo palesemente contenti. Azzardiamo due spiegazioni possibili. O siamo un po’ ingenui e fuori dal mondo; o siamo stati confermati una volta di più nella nostra idea che la bellezza ti connette al mondo: esterno ed interiore. Buona la seconda! nel nostro piccolo viaggiando verso casa ci sentivamo un po’ più in pace con noi stessi: e ci sentivamo un tantinello più belli.        E’ da lì che si parte per il viaggio dentro la complessità del reale.

E allora, al prossimo viaggio TempodiEventi !  Ed alla prossima piccola grande ricerca di bellezza e di connessione: col mondo. E con noi stessi.

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