
Quando la maestria sposa l’estro italiano
a cura di Annabella Izzo
In una mattinata uggiosa quando ti è capitato di affacciarti da una terrazza romana e davanti a te hai avuto il Circo Massimo e lo sguardo si è spinto oltre, ad ammirare la bellezza antica, severa e nel contempo dolce dei colli Aventino e Palatino, non puoi fare altro che ripeterti che la meraviglia di ciò che ha provato la tua vista è sempre la stessa che si rinnova e che mai ti stanca. Se poi rifletti che hai camminato sulla pavimentazione dell’edificio che ospita nei piani sottostanti il Laboratorio teatrale dell’Opera di Roma che hai appena visitato, allora si mettono in moto dentro di te altre sensazioni. Chiara, la responsabile che ci ha ricevuto, ci ha rinfrescato la storia dell’edificio che per i romani è conosciuta. Il racconto ci ha portato in un tempo lontano, addirittura al Risorgimento romano, quando un tale Michele Pantanella, giovane industrioso e lungimirante, fece affari e si ingrandì provvedendo con la sua attività al soddisfacimento di un bisogno primario della popolazione romana: mangiare pasta e pane. Fino a lì memoria di fatti storici, di quelli letti sui libri. Più vicino a noi invece il seguito della storia, quella che molti conoscono per il vissuto di genitori o di nonni, praticamente la conversione dell’edificio per volontà di Mussolini da pastificio a mostra-museo dell’Impero romano. Sulla terrazza a riportarci indietro a quel tempo disgraziato ancora svetta una delle sirene antiaeree della seconda guerra mondiale piazzate su punti strategici della città. Pelle d’oca a riprodurre mentalmente il cupo suono di quello strumento che, ammetto, non avevo mai visto e che mai mi ero domandata come fosse materialmente fatto (della serie non si finisce mai di imparare). Ma togliamo di mezzo quel brutto arnese e torniamo al più recente impiego del palazzo di tre piani che il Comune di Roma acquisì negli anni ’50 per dedicarlo alla sede delle lavorazioni artigianali per le rappresentazioni teatrali di uno dei più prestigiosi teatri per musica e balletto che abbiamo in Italia, l’Opera di Roma. Straordinario è stato scoprire il lavorìo nei vari settori, attraverso tecniche antiche mantenute gelosamente in vita dalle maestranze odierne. Laboratori di falegnameria, teleria, coloreria e attrezzature necessarie per le scenografie pretese da registi di ieri e di oggi che non intendono discostarsi dalle creazioni tipicamente di fattura e gusto italiano apprezzato in tutto il mondo teatrale. Riflettendo sulla qualità del lavoro, il pensiero è corso inevitabilmente al ricambio generazionale, che come in molti settori del nostro artigianato sappiamo essere un punto cruciale. La carenza di nuove leve, le attuali tecnologie in grado di sostituire in minor tempo e con costi più sostenibili gli allestimenti e i fondi sempre più insufficienti, hanno fatto il paio con il settore dell’”archivio costumi”. Ma no, non si può chiamare archivio. L’archivio presuppone catalogazione, esposizione, manutenzione, una cura insomma a tutto campo. Quindi tutto lo splendore della sartoria di livelli altissimi che in tanti decenni ha saputo portare sul palcoscenico la bellezza di abiti in massima sintonia con le opere rappresentate (il numero dei costumi è stimato oltre i 65.000 pezzi) risulta appannato. Davanti ai nostri occhi un deposito qualunque di qualunque merce ammassata a caso, un labirinto carico di vestiario di tutte le epoche e di tanti stili. Ecco quindi salire al petto il peccato originale che molto spesso ci portiamo appresso su quanto abbiamo di grande valore nel nostro Paese. Ricchezze sottovalutate e mal gestite. Un tesoro inestimabile così malamente conservato che ha dato lustro ad artisti di fama mondiale, sia nella lirica che nel balletto, mortificato giorno dopo giorno dall’incuria. Tutù evocativi di dolcezza e armonia che danzavano con la polvere appesi alle relle in stretti corridoi come fossero maschere dozzinali di recite scolastiche dimenticate in cantine buie e abbandonate. Prestigio e decadimento! Può anche questo apparire affascinante? Forse.