
Quando la musica la vedi… plasticamente
a cura del Prof. Carlo Mari
Essere abbonati ad una stagione di concerti (e la stagione sinfonica all’Auditorium di Roma, Santa Cecilia, ne prevede ben 28) significa avere la opportunità di ascoltare una grande varietà di musiche e musicisti. Per fare qualche esempio, dagli iperconsolidati Beethoven, Mozart e Liszt, al sempre più fascinoso Mahler, ai raffinati Brahms e Mendelssohn, agli appassionati ed emotivamente travolgenti Cajkovskij, Rachmaninov, Prokofiev o Dvorak. Ma significa anche incontrarsi con musicisti meno conosciuti o quanto meno non così diffusamente eseguiti, come Bruckner, Sibelius o Saint Saens; fino a musicisti mai ascoltati prima, come l’inglese Ades. Significa scoprire lo straordinario minimalismo musicale dell’americano Philipp Glass, oppure la incalzante sonorità di Gustav Holst. Significa abituarsi alla urticante atonalità di certe musiche novecentesche come rifluire nella dolcezza melodica di ouvertures e romanze del melodramma italico, da Puccini a Verdi a Rossini, a Mascagni.
Significa coltivare il proprio gusto per la meravigliosa e flessibile intensità interpretativa del pianoforte, emozionarsi al suono profondo del corno francese come alla raffinatezza delicata del flauto traverso o alla forza evocativa dell’oboe. Significa scoprire la forza antica e struggente del corno inglese. Insomma, la fascinazione della musica in una stagione intera, di circa nove mesi, si sprigiona non solo per la bellezza e universalità del messaggio musicale, ma anche per la sua profonda, quasi infinità varietà. E così non ti sorprendi neppure che al di fuori della tua esperienza di abbonato, questa fascinazione ti penetri anche all’ascolto di musica altra: dall’intimismo di un pezzo di jazz freddo al rock incalzante e pur italicamente melodico dei Maneskin; o alla possente eleganza vocale di una interpretazione di Mina o di Whitney Houston; o alla intensità espressiva di un brano di Luigi Tenco o di Lucio Battisti, dei Beatles o dei Queen. Perché, signori, la musica è musica: è linguaggio universale, ed è linguaggio che ti arriva dentro attraverso varie strade, e ti parla nel profondo, ti smuove e ti sublima, anche quando sei sprofondato nel reale del vissuto quotidiano.
E più che mai questa fascinazione la musica la sprigiona quando non solo la ascolti… ma la vedi, anche. Eh sì, riflessione ormai diventata ritornello dopo la pandemia, ma quanto vera – che contraddica o no la crescente pigrizia delle persone: tutto, da una chiacchierata fra amici, ad una conferenza, da vedere un film o uno spettacolo teatrale ad ascoltare un concerto, beh – per usare un termine abusato e burocratico, ma inequivocabile – in presenza è un’altra cosa.
Sì, anche un concerto sinfonico. Puoi avere televisori stereofonici, impianti wi-fi sofisticati (e meno male che esistono, per carità), ma a casa la musica la ascolti. Nella sala concerti la musica la vedi. Vedi il direttore e il modo con cui interiorizza la musica e contestualmente la trasmette agli orchestrali nei tempi, nella ispirazione, nei ritmi, nelle sonorità, persino nel volume: agli orchestrali e al pubblico. Dallo stile compassato e sofferto di alcuni direttori a quello mobile e scenografico di altri, tutto concorre a farti entrare dentro la musica con percorsi diversi e partecipati: appunto, a vederla, la musica. E così pure ti attrae il vedere mentre gli strumenti suonano, e già nella loro stessa fisicità esprimono la diversità di funzione nell’ensemble orchestrale. Basti pensare al blocco dei violini, prevalente per ruolo e per numero, che danno la linea melodica e l’idea della dominanza sonora; oppure al suono caldo e profondo dei violoncelli; oppure al confronto fra il corno francese, imponente nella sua rotondità, luccicante nel suo ottone, poderosamente armonioso nella svasatura della uscita, ed il corno inglese, sobriamente sottile e nero nella sua dimensione lignea, dal quale ti aspetti che esca… sì, esattamente quel suono lì, un suono che sale dal sommerso e ti penetra l’anima, evocativo, malinconico, vagamente pastorale: un suono che viene da lontano, e ti porta lontano. Non a caso fra le varie ipotesi relative al nome (“inglese” non pare si riferisca all’Inghilterra, bensì alla linea angolare dello strumento) quella più gettonata e comunque la più suggestiva è che provenga dalla radice della parola “angelico”. Insomma, sia come sia, la musica è messaggio di forte impatto comunicativo, è linguaggio universale che supera barriere e steccati, aggrega e si fa comunicazione che mixa sfera intellettuale e sfera affettiva, che sublima stati d’animo che già stai vivendo o altrimenti ti induce stati di sensibilità in eventuale assenza o grigiore di temperie emotiva.
Tutto questo ovviamente non esclude, bensì implica e presuppone una interazione diversa e varia fra musica e chi ascolta/vede musica, secondo gusti personali, sensibilità, esigenze consolidate od occasionali, preferenze. Come del resto di fronte a qualunque arte, o anche a qualunque esperienza della vita, il rapporto è bidirezionale. Come si dice con orrida espressione della linguistica e della scienza della comunicazione: per il messaggio, per il suo significato, per la sua intensità, efficacia e funzione, è strutturale e fondante – ma anche creativo – il rapporto mittente/ricevente.
Però anche a costo di contraddire quanto detto prima a proposito della bellezza ed importanza della varietà della musica, nonché della varietà dei rapporti fra musica e “ricevente”…. beh, certa musica sprigiona un suo potere emozionale oggettivo, al di là delle situazioni, dei gusti, delle sensibilità.
Ci sono musiche che per quello che sono, per come sono, ti avvolgono, ti coinvolgono, ti arrivano dentro. E con poche varianti in chi le ascolta, ed ancor più se le guarda. D’altronde una oggettiva qualità e forza coinvolgente e affascinante può manifestarsi in determinate opere anche nelle altre arti, ma in misura ed intensità minore di quanto accada con la musica. Con certe musiche.
E una riprova ne ho avuta all’ultimo concerto cui ho assistito nei giorni passati. Lo aspettavo da quando a luglio scorso era uscito il cartellone della stagione 22/23. Tema: opere musicali legate alla storia di Romeo e Giulietta. In dettaglio, la Ouverture fantasia di Cajkovskij ed una suite dal balletto di Prokofiev. Per di più, direttore della serata, l’intenso Daniele Gatti. L’orchestra neanche da citarla: ormai una sicurezza di qualità a livello internazionale.
Romeo e Giulietta, un’opera teatrale che ho nel cuore, che mi affascina da quando ero loro coetaneo, ad oggi quando potrei essere loro nonno. Musiche sublimi, che esprimono tutta la romanticità e la drammaticità della vicenda. In particolare la ouverture cajkovskijana, con momenti musicali da brividi. Appunto. E così mi son preparato ad ascoltare e vedere la serata.
Nel mentre con le persone abbonate da anni insieme a me ci andavamo dicendo che probabilmente non eravamo i soli ad aspettare con ansia quel concerto, abbiamo potuto constatare che l’affluenza di pubblico era, diciamo, molto corposa? Una volta entrati, la sala, da 2.800 posti, piena più del solito, per il turno postcena del venerdì, il meno frequentato perchè si conclude a tarda serata. Invece diciamo sala quasi esaurita. Non basta. Pur avendo notato da mesi una crescente partecipazione di giovani ai concerti, beh quella sera la presenza di giovani appariva plasticamente rilevante: non dico maggioritaria, ma di pari consistenza con i “meno giovani”. E dico giovani, ma anche giovanissimi, più o meno adolescenti. Insomma di fatto coetanei di Romeo e Giulietta. Fascino della storia resa immortale da Shakespeare? Probabile, ma non solo. E’ che anche un giovane musicalmente sprovveduto (e molti non lo sono affatto) si rende conto che musiche ispirate a questa vicenda non possono che essere da brividi. E dunque son bastati i titoli sul programma per aggregare attorno a Shakespeare, Cajkovskij e Prokofiev persone di ogni età in gran numero. E tutti già seduti dieci minuti prima dell’entrata dell’orchestra: senza bisogno del consueto sollecito da parte dello speaker all’altoparlante.
Insomma la serata prometteva bene… ma sinceramente è andata oltre le mie previsioni. Perché se avevo bisogno di una conferma alla mia idea che comunque certi autori e certe musiche coinvolgono, appassionano, sollecitano… insomma, diciamo banalmente, piacciono di più, beh la conferma mi è arrivata forte e chiara. Sedute alla mia sinistra le persone ed amiche che da anni sono abbonate insieme a me. Alla mia destra, in poltrone che di volta in volta vedono spettatori diversi, c’erano seduti un ragazzo ed una ragazza (insieme ai genitori di lei). Diciamo un po’ più che ventenni, alti, piuttosto eleganti entrambi, e molto gradevoli a vederli e a scambiarci qualche parola.
Buio in sala, orchestra pronta e parte Cajkovskij. Note subito appassionate, e poi incalzanti, con organico orchestrale tutto impegnato, sezione dei fiati iperattiva insieme a quella poderosa delle percussioni. Alla mia destra noto un po’ di agitazione sulle poltrone. La passionalità della musica sta colpendo, i due ragazzi si agitano sulla poltrona e dopo un po’ distolgono lo sguardo dal palco e… cominciano a fissarsi. Sorrisi reciproci, ed io penso: stanno apprezzando Cajkovskij, piace anche a loro come a me. La musica rallenta, poi prende come una rincorsa melodica, torna sottotono e poi… si apre in un “larghissimo”, una melodia struggente e sublime, fra le musiche più emozionati che io conosca.
E alla mia destra… non posso fare a meno di vedere, sono a venti centimetri da me: i due ragazzi non si stanno sorridendo più. Le mani si sono strette, la ragazza si è raggomitolata al ragazzo, e si stanno baciando alla vivaddio, che in confronto Francesco Hayez col suo bacio appare un dilettante. Non c’è sala di concerto che tenga, con le sue 2.800 persone, non ci sono i genitori di lei seduti a fianco; non ci sono io a venti centimetri. Si stanno baciando in un empito delicato e appassionato ad un tempo, che pure Cajkovskij è rimasto sbigottito. Poi la musica scende di tono e di intensità, e i due si danno un po’ una calmata. Ma appena la musica riparte avvolgendosi su se stessa ad organico orchestrale completo, e anche il direttore si avvolge su stesso… pure i due ragazzi, appunto, si riavvolgono su se stessi. Altro che bacio di Hayez; avete presente il bacio di Klimt? oppure il bacio di Romeo e Giulietta sul balcone raffigurato con tutta la raffinata sensualità dei preraffaelliti? Ecco, appunto, raffinatezza è quello che vedo alla mia destra. Raffinatezza e sensualità. In altri termini: amore. Unico punto interrogativo, è che siamo solo al primo tempo, manca ancora tutta la suite di Prokofiev. E infatti anche il secondo tempo vede i nostri due eroi elegantemente avvinghiati nella seconda fila della galleria dell’Auditorium. E devo dire, i genitori di lei, impassibili. Cari miei, l’amore è amore, Romeo e Giulietta sono Romeo e Giulietta e la musica è musica: per i figli, e pure per i genitori. Unica preoccupazione è che se il
concerto dura ancora un po’, non so come va a finire!!! Non sia mai fanno un bis!!! Che però fortunatamente non usa per le sinfonie e quindi il concerto alle 22,50 felicemente si conclude, con una grande standing ovation del folto pubblico. A questo punto non capisco nemmeno più se la standing ovation sia per l’orchestra oppure per i miei due vicini di posto!!!
Comunque amici miei, che bello. Due abbracciati, stretti e che dolcemente si baciano, in verità lo si vede anche sovente al cinema, anche a teatro… forse. Ma francamente ad un concerto sinfonico non mi era mai capitato. E però, che meraviglia. Non ho mai gustato tanto quella musica che già amavo, quanto l’altra sera, quando ha dato sicura prova di sé, della sua sublime forza e capacità di suggestione: e in modo così dolcemente ed appassionatamente plastico.