Riflessioni disordinate
Del Prof. Carlo Mari
“Piove. È mercoledì. Sono a Cesena”.
Non so perché ripensando alla visita alla Galleria Borghese di domenica 4 dicembre mi è venuto in mente questo incipit di una bellissima poesia crepuscolare di Marino Moretti. Forse il clima crepuscolare.
“Piove. E’ domenica. Sono alla Galleria Borghese”.
Visita numero … non si contano le volte che ho visitato questo museo. Che poi chiamarlo museo nemmeno va bene. E’ una casa, una strepitosa casa che ti accoglie ed ogni volta ti avvolge, in un caldo morbido abbraccio fatto di bellezza e di umanità. La Galleria Borghese crea in effetti una sorta di dipendenza da stupefacente; non nel senso della sostanza tossica, bensì nel senso del bisogno di tornare a visitarla, periodicamente, laddove la periodicità può essere pure molto intensa. Basta un pretesto, una occasione … e ti fai una dose di Galleria Borghese.
E non c’è pioggia che tenga. Un tempo grigio, un fastidiosissimo ombrello fra le mani, un tasso di umidità a livelli da sudest asiatico. E niente. Ci imbarchiamo e andiamo, come fosse la prima volta.
Dice: “ma c’è una mostra” e quindi non andiamo per vedere la Galleria Borghese, ma per vedere una nuova mostra. Vero. Anzi, pare vero! E come sempre in questi casi, guardiamo la mostra e guardiamo i capolavori che abitano quotidianamente nella Galleria, i soffitti, le pareti, i quadri, le sculture. Già nella prima sala sei avvolto come in un mantello pluricromatico da un soffitto in cui gli azzurri, i rossi, i verdi, i gialli eterei si illuminano reciprocamente; mentre le figure eroiche e quelle allegoriche, l’iconografia valoriale di giustizia, lealtà, onore che trionfano grazie all’azione del Tempo sconfiggendo calunnia, inganno, falsità, ti danno il senso di una grande battaglia fin dall’antichità contro le fake news e la manipolazione diffamatoria.
E poi, fra colori ammalianti e stucchi dorati, ecco che ti trovi ai piedi del berniniano Ratto di Proserpina: con i nostri sguardi affascinati e sorpresi. Sorpresi sì, perché Bernini in questa statua ha scolpito quella mano di Plutone che affonda nella coscia di Proserpina, che anziché di marmo sembra proprio di carne vera, autentica, morbida e sofferente ad un tempo. No, dico, commento che ripetiamo – dentro noi stessi oppure ad alta voce – ogni volta che vediamo quella statua: e domenica la vedevamo per la … non mi ricordo neanche più il numero di volte. Eppure ogni volta ci sembra che il marmo sia carne: vera. E’ la forza dell’arte, tanto più quando è sublime. Puoi entrarci in contatto mille volte, ed ogni volta ti affascina. Ti penetra dentro, come fosse la prima volta. Del resto perché no? Forse che l’Infinito leopardiano, una volta che lo hai letto, poi basta? Forse che la Patetica di Cajkovskij una volta che l’hai ascoltata, poi basta? E la botticelliana nascita di Venere la vedi una volta… e poi muori? Sì, muori dalla voglia di rivederla.
È l’arte, signori, la sua forza, la sua capacità di parlare al tuo profondo ogni volta che la incontri, la sua capacità di emozionarti e di farti riflettere, ogni volta che la incontri. E dunque, nessuna sorpresa, mio caro Bernini, non ci riesci mica solo tu con la tua sublime Proserpina; né ci riesce solo la Galleria Borghese. Tant’è che lo stesso effetto ci fa anche la canoviana Paolina Borghese o la caravaggesca Madonna dei Palafrenieri, o la tizianesca accoppiata di Amor sacro e Amor profano; e così via, tutti capolavori che si trovano…ehm, scusate, si trovano pure loro alla Galleria Borghese!! E c’è pure Bernini che fa il bis con Apollo e Dafne; anzi fa anche il tris con Enea che porta in spalla il padre Anchise e per mano il figlio Ascanio. No dico, ma quante parole dobbiamo spendere noi comuni mortali per illustrare le età dell’uomo ed i legami umani intergenerazionali? Ore di semiafasiche spiegazioni: Bernini lo fa con una statua. Una sola. Che sta lì, su un piedistallo, in una sala – ovviamente – della Galleria Borghese. E poi ci meravigliamo della nostra meraviglia quando rivediamo per la trecentesima volta la stessa opera? Infatti, diciamo la verità, non ci meravigliamo affatto, e torniamo ad andarci, alla Galleria, magari con la scusa di una mostra.
Che se poi la mostra è bella pure quella, allora il grigiore del cielo, l’umidità vietnamita e il fastidio di un ombrello in mano scompaiono. Li rimuoviamo. Magari l’ombrello, vista la pioggia, non possiamo rimuoverlo, tanto più se alla fine della visita la pioggia è assai battente. E se per caso uno l’ombrello non se l’è portato? La Borghese pensa anche a questo, perché sulla scaletta di uscita ti fa trovare un ombrello abbandonato, che un amico visitatore, da noi ben conosciuto e imprudentemente uscito senza, preleva furtivamente – mai avverbio fu più appropriato. “Scusa, ma non avevi dimenticato l’ombrello? E questo, dove lo hai preso?” “Me lo ha dato Bernini!!” Ah va beh, è vero, Bernini sa fare proprio di tutto. E meno male che il nostro amico di Bernini si è preso solo l’ombrello, che se si prendeva il Ratto di Proserpina ci creava qualche problema. Se non altro di posto in macchina!!!
Dicevamo: bella pure la mostra! Allora è l’en plein! Dipinti su pietra, su lavagna, su alabastro, su pietra paesina. Opere di autentico cesello di cera e malta, che non sai se restare più ammirato della pazienza messa in campo dall’artista, o dal suo splendore coloristico (con degli azzurri e dei rossi mozzafiato), o da un figurativo giocato su dimensioni da miniatura. E c’è di tutto, come soggetti, non solo iconografia biblica; c’è il mito classico, c’è l’Orlando Furioso, c’è il paesaggismo. Piccoli gioielli, che ammiri, nel mentre distrattamente ti rendi conto che stai passando di fronte alla Dama con liocorno di Raffaello, che c’è pure lui, tanto per gradire.
Ma al di là della bellezza artistica, una cosa mi colpisce, e la faccio notare alla nostra guida – e amica, Silvia, sì sempre lei, quella della mostra di Van Gogh! Un piccolo cameo, delicatamente incorniciato, che rappresenta la sacra famiglia. Non certo una novità. E però, quello lì, vicino alla Madonna e a Gesù, che li tocca, li sistema bene sull’asinello, chi è? Ma sì, è proprio lui, San Giuseppe. Che stavolta non viene sistemato a debita distanza, ma a contatto con la moglie e il figlio. Un gesto pieno di dolcezza, nella apprensione del braccio teso verso Maria per sincerarsi che sia sistemata bene sull’asinello e con il bambino in braccio. Il tutto su uno sfondo incantato azzurro di lapislazzuli. E, gesto strepitoso, la Madonna ricambia allungando mollemente il proprio braccio su quello del marito, come a rassicurarlo e a ringraziarlo ad un tempo. Uno scambio di gestualità affettuosa e – diciamolo – innamorata. E sì, il povero Giuseppe di solito rappresentato sempre da una parte, marginale, ma anche sovente inespressivo, come non fosse invece preso da amore profondo per la sua famiglia, per la sua donna ed il bambino. Dolcissimo il volto di Giuseppe, come raramente capita di veder dipinto. E subito il mio pensiero vola – anche un po’ arrabbiato – ad una consuetudine estetica e culturale, per cui l’amore genitoriale trova rappresentazione iconica sempre nelle figure materne. E i padri? Come non fossero rappresentativi di amor genitoriale. E di chi è la colpa di questa consuetudine? Di noi uomini, perché certo, noi abbiamo altro da rappresentare: la forza, l’imperturbabilità, la durezza di una scorza che non conosce la debolezza delle emozioni. E così abbiamo delegato alla donna una bellezza e una funzione di cui la donna era già portatrice da se stessa, senza una esclusiva per gentile concessione maschile: la esclusiva dell’amor genitoriale, della dolcezza, della sensibilità, della emotività. Ti pare mai possibile? un uomo che si emoziona, un uomo dolce, un uomo sensibile… e che è? Una donna? Ha scritto la poetessa Alda Merini: “La sensibilità non è donna. La sensibilità è umana. Quando la trovi in un uomo, diventa poesia”. Invece quanto a modelli antropologici che disastro abbiamo combinato nei millenni!
I pensieri mi si affastellano nella mente, che sta uscendo dalla Galleria Borghese, e corre addirittura verso il dibattito sui congedi parentali, che dovrebbero diventare paritari tra madre e padre. E invece le forze politiche – non solo italiane – trovano inopinatamente convergenze su una resistenza contro una proposta di legge di pura e semplice civiltà umana. Ti pare che un padre possa assentarsi dal lavoro tanto quanto una madre per accudire il proprio bambino bisognoso di cura? Cura. I mestieri di cura, i servizi di cura, fossero pure genitoriali, son cose da donne. E così abbiamo fregato le donne e pure gli uomini. Le une per accumulo; gli altri per sottrazione: l’accudire un proprio bambino, tenerlo in braccio, farlo addormentare, farlo sorridere. San Giuseppe ha da fare il falegname, altro che stare appresso al proprio bambino che cresce, pieno di entusiasmi e pieno di problemi, di ansie e, nel caso specifico, carico di un destino… vagamente complesso! Non ricordo nemmeno il nome dell’artista, ma certamente era uno che aveva capito Giuseppe, che aveva Giuseppe dentro di sé.
Nel frattempo la nostra amica Silvia mi vede con lo sguardo perso nel vuoto, e magari pensa che la mostra non mi sta appassionando più di tanto. Al contrario, arte e vita si intrecciano: l’arte serve a penetrare la vita. A volte ti può dare emozioni, a volte ti può sollecitare riflessioni, a volte può scatenare ragionamenti. E’ comunque sempre una scarica, benefica, di adrenalina.
Dicevo, una amica. Eh già, altra bella questione, la amicizia. Che ha tanti aspetti, tante ragioni d’essere, tante origini, tanti profili: non credo esista l’amicizia come entità unica o una definizione esaustiva per ogni dimensione amicale che possiamo coltivare nel nostro vissuto. Ma certamente un filo conduttore c’è, una costante, una componente ineliminabile che sta nel DNA di ogni rapporto amicale. Il senso dei legami. Si parla tanto di libertà, e giustamente: altro valore dai tanti risvolti; altro valore fatto di complessità. Ma una cosa penso si possa dire: non c’è libertà nella solitudine, non c’è libertà senza legami. Legami da coltivare, come un fiore, che dia colore alla tua vita.
Stiamo per uscire dalla Galleria, dalla mostra; e passiamo davanti a Tiziano, al suo Amor sacro, Amor profano, laddove la figura femminile nuda, più morbida, più calda cromaticamente, guarda alla donna riccamente abbigliata ma un po’ asettica, indicandole col solo sguardo la prospettiva della sublimazione dell’innamoramento: cioè di un legame.
Ha scritto Jorge Luis Borges: “in certi momenti il senso non conta, contano i legami”. Quei legami che ti fanno desiderare di stare insieme; e può essere amore, può essere amicizia, può essere affetto, può essere stima e rispetto.
E’ sempre desiderio di con-dividere.
La Galleria Borghese è bellezza assoluta, il più bel museo d’Italia, e forse del mondo, come dice sempre la nostra amica Silvia. Ma se davanti a Proserpina o a Paolina Borghese o alla Fornarina ci stai con altri, con cui con-dividi, allora sei più libero, umanamente libero.
Tempo fa, volendo fare un regalo a qualcuno della nostra associazione e volendoci abbinare un messaggio augurale, alcuni di noi hanno dibattuto se nella frase, che parlava di “bellezza” e di “emozione”, la parola amicizia dovesse figurare anch’essa al singolare oppure al plurale. Il punto era proprio questo. Il singolare puntava ad un valore un po’ astratto, per quanto bello, ad un generico e un po’ indistinto spirito amicale di gruppo. Il plurale esprimeva persone, dinamiche vive e varie, reali, niente affatto ideali, ma segnate da scelte concrete e libere di condivisione: di legami.
E così fanno sempre le arti: quando hai finito di ammirarle, di gustarle e di introiettarle, hai ancor più voglia di coltivare legami.